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“Nato da donna” ‐ Scrive San Paolo: “… quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna…” (Gal 4,4‐7). Questa affermazione, apparentemente ovvia – perché da dove mai nasce un essere umano, se non da una donna – qui è però riferita al Cristo e colloca quindi la femminilità al vertice della gerarchia dei valori. Se l’apostolo avesse scritto “nato da Maria” , avremmo pensato ad un dettaglio biografico.
Ma avendo detto “nato da donna”, ha dato alla sua affermazione una portata universale ed immensa, perché è la donna stessa, ogni donna, ad essere elevata, in Maria, alla sua incredibile altezza.
Non c’è Dio incarnato senza la donna: il Concilio di Efeso (431) ne ebbe tanta consapevolezza che i duecento padri presenti proclamarono all’unanimità Maria, la Donna, “Theotòkos/Madre di Dio”.
L’autorevolezza della maternità è in quel suo evocare, quasi naturalmente, una marcata esigenza religiosa, nel rimandare alla radice dell’esistenza dell’io, che può solo ricevere la vita e renderne grazie. Questo rimandare ad un Altro è già implicita evocazione di Dio e lega la maternità al divino (Giulia Paola di Nicola). In questo senso la maternità deve essere vissuta spiritualmente anche dagli uomini, perché esprime al massimo livello l’intenzione relazionale dell’atto sociale attraverso il quale ciascuno dà se stesso, e quindi in un certo senso si “svuota” per ospitare l’altro.
In virtù di ciò, come scriveva Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e presidente CEC, nella sua lettera per l'avvento 2018, “immaginiamo l’avvento come il tempo di altrettanti appelli alla nostra anima, che desidera di essere incontrata da colui che viene nella carne umana, per associarci alla vita divina”.
È questa l’umanità che scaturisce dall’Incarnazione di Gesù, “nato da donna”: e la maternità diviene il codice dell’umanizzazione kenotica e salvifica del mondo.
Anna Rotundo